a cura della redazione
10 February 2019

Dio salvi la Bonnie

La bicilindrica inglese è il simbolo di moto "classica". Dalla linea elegantissima, facile da guidare e dotata di brillanti prestazioni, questa vera icona del motociclismo ha 60 anni di vita e mantiene intatto il suo fascino. Vi sveliamo i suoi segreti
1/15 Triumph Bonneville T120 650
Non c’è tema di smentita: la “Bonnie” è, ancora oggi, l’emblema della moto inglese. In lei sono concentrate tutte le caratteristiche che ci si aspetta da una due ruote made in england: leggerezza, stabilità, buona tenuta di strada e maneggevolezza e pure un motore pieno di coppia e trazione nella ultima versione 1200 raffreddata ad aria e liquido. Un modello che è da sempre il caposaldo dell'intera produzione della Casa di Hinckey e che a 60 anni dalla sua presentazione, nel settembre del 1958, al Salone londinese di Earls Court, mantiene intatte queste caratteristiche. La prima Bonneville T120 del 1958 venne chiamata così per celebrare i record di velocità ottenuti dal pilota texano Johnny Allen sul lago salato nella omonima località dello Utah: seduto all’interno del siluro “Texan Ceegar” di 5 metri, e che aveva una carrozzeria in fibra di vetro, un telaio a traliccio in tubi di acciaio ed era mosso dal bicilindrico ad aste e bilancieri inglese, riuscì a toccare i 345,100 km/h nel 1956. Per la sigla, invece, ci si riferisce alla lettera T come contrazione di “Twin”, ovvero il riferimento al suo motore bicilindrico, mentre il numero 120 indica la massima velocità raggiungibile in miglia orarie (sono poco più di 190 km/h) da questa moto anche se nessuna Bonnie di serie riesce ad avvicinare questo risultato. La Bonnie viene costruita dal 1959 al 1970 in 220.000 esemplari, poi rinasce nel 1975, quando viene costituita la cooperativa di Meriden, grazie alla quale il Marchio Triumph resta sul mercato. La ripresa della produzione si deve al generoso contributo (5 milioni di sterline) del governo laburista del primo ministro Harold Wilson. Poi, di nuovo, un progressivo declino nelle vendite di queste moto inglesi che non riescono più a tenere il passo con la concorrenza giapponese e tedesca. La fabbrica chiude nel 1983 con gli stessi lavoratori della cooperativa che decidono di metterla in fallimento, ma a salvatore della Union Jack a due ruote si presenta l’imprenditore immobiliare John Bloor, che nello stesso anno rileva quanto di Triumph rimane e ancora oggi lo difende più che egregiamente. Esteticamente poi queste 650 sono un classico, con una linea equilibrata ed aggraziata; e a conferma di ciò è il fatto che nella recente operazione di “avanti verso il passato” che ha portato alla nuova Bonneville 800, ci si è fortemente ispirati proprio alla versione della fine anni 60. Ma anche, purtroppo, i tipici difetti che chi si accinge ad acquistare una old english bike deve ben conoscere per non restare deluso poi, anzi per considerarli come prerogative, quasi fossero “doti” di questa moto.

Ci pensa Turner

La Bonnie è senz’altro la più esuberante tra le Triumph bicilindriche, con uno scatto ancora oggi notevole anche nei confronti di qualche moderna bicilindrica. E poi ha un’estetica tutta sua, con i 2 corti cilindri verticali, la griglia sul serbatoio che enfatizza il Marchio e le marmitte rigorosamente dalla forma a bottiglia. Come tutte le creazioni dell'azienda inglese dalla metà degli anni 30 fino agli anni 60, anche la Bonneville è firmata da Ed Turner, il geniale progettista autore dell’archetipo della bicilindrica inglese di 360°, la Speed Twin del 1937. Non si pensi però che Turner, oltremodo tradizionalista e molto restio ad ascoltare le idee ed i consigli di chi gli stava accanto, abbia accettato spontaneamente e senza resistenze di aumentare da 500 a 650 cc la cilindrata della Speed, cosa fatta con la Thunderbird, nè in seguito di progettare una nuova testata che potesse ospitare il doppio condotto indipendente per montare i 2 carburatori al posto di quello singolo. Per ogni modifica che doveva introdurre al progetto originale, Turner difficilmente cambiava parere, quasi che considerasse perfetti e non migliorabili i suoi progetti iniziali. Ne sono esempi il perdurare del mozzo elastico sulla ruota posteriore, quando quasi tutti i Costruttori offrivano già il forcellone con i 2 ammortizzatori, o la sua contrarietà alla verniciatura bicolore, quando soprattutto negli USA era già moda imperante. “Ditemi come vendere più moto, non come farle andare di più!” sbraitava il focoso Ed, salvo poi giustificarsi ammettendo che la sua Bonneville era il massimo sviluppo a cui poteva giungere il progetto originale della Speed.

Evoluzione negli anni

La Bonneville del ‘67/’70 è il risultato di 10 e più anni di produzione e di esperienze. Non che dal ‘58 al ‘67 la moto fosse rimasta immutata anzi, anno dopo anno, si introduceva sempre qualche piccola miglioria che stimolava il mercato e dimostrava l’interesse della Casa a mantenere aggiornato il proprio modello di punta, nonostante il prodotto non temesse concorrenti e si vendesse sempre molto bene. Il decennio che va dalla fine degli anni 50 a tutto il 1969 si può infatti definire il “periodo d’oro” per la Triumph, che arriva a costruire anche 50mila moto all’anno, di cui il 70% esportate negli USA, e per la maggior parte di grossa cilindrata, cioè 500 e 650 cc. Nel 1967 su 28.700 Triumph vendute in America, ben 13.100 sono Bonneville. In Italia, tra il 1960 e il 1970 sono state immatricolate solo circa 2.000 bicilindriche Triumph di 650 cc ed anche in questo caso quasi tutte Bonneville. Proseguendo sulla via dei piccoli affinamenti, troviamo nel ‘67 l’applicazione dei carburatori Amal Concentric da 30 mm ed un miglior circuito di lubrificazione, nel ‘68 la più efficiente accensione Lucas 6CA con i ruttori indipendenti ed il freno anteriore a doppia camma con presa d’aria del tipo sperimentato sulle macchine da competizione, mentre il volano appesantito per ridurre le vibrazioni è installato nel ‘69.

È tutta nuova

Il 1970 è un anno di attesa perchè nel ‘71 arriverà una Bonneville completamente nuova, a partire dal telaio “oil in frame” con il lubrificante all'interno dei tubi, passando attraverso l’impianto frenante a mozzi conici, per arrivare alla linea del serbatoio squadrata. Proprio il modello presentato all’inizio del ’69 introduce parecchie novità rispetto ai precedenti. Ci sono infatti la spia della pressione dell’olio sul dorso del faro, l’interruttore dello stop anche per il freno anteriore il quale, pur rimanendo uguale a quello dell’anno precedente, monta ora un differente sistema di azionamento delle camme in cui il cavo lavora più liberamente grazie al percorso più rettilineo. Diverso invece il piatto cromato sulla sinistra che perde le feritoie del modello del 1968. I due collettori di scarico sono uniti da un tubo di compensazione poco dopo l’uscita dalla testata per permettere un migliore bilanciamento dei gas esausti verso i silenziatori. Il reparto delle sospensioni è rivisto, con nuovi ammortizzatori idraulici più efficienti nella forcella e ammortizzatori posteriori a molle cromate e scoperte, anziché imbussolate come in precedenza. Pure nuove le misure dei pneumatici che passano da 3.00 (o 3,25)-18 a 3.25-19 l’anteriore, e da 3.50-18 a 4.00-18 il posteriore. La moto è inoltre accessoriata con una coppia di trombe accordate che sostituiscono il classico clacson montato finora e con manopole in gomma al posto di quelle dalla forma a “botticelle” usate in precedenza. Queste in sintesi le modifiche principali ed alle quali si mantiene fedele anche il modello costruito nel 1970. Poi l’inevitabile declino le cui cause si possono riassumere, oltre che nella comparsa nel 1969 della fenomenale Honda CB750 Four, la moto che secondo gli inglesi “nessuno avrà mai il coraggio di costruire in serie”, soprattutto nell’immobilismo tecnico dovuto all'incompetenza della classe dirigente di Triumph: nella presunzione della loro quanto obsoleta imbattibilità tecnica continuavano a sperperare denaro in progetti assurdi, anzichè modernizzare macchine ed impianti produttivi. La Bonneville, insomma, resta vittima di se stessa perché non riesce a proporsi, se non come valida concorrente alla moto giapponese, almeno come mezzo alternativo pure alla produzione italiana, di caratteristiche profondamente diverse ed indirizzato ad una certa clientela che ancora, negli anni 70, ne apprezza la filosofia. Il riscatto è comunque avvenuto con la rivalutazione delle moto classiche perché oggi una Bonnie di quegli anni vale assai di più di una giapponese dello stesso periodo, pur con tutte le sue “magagne”. È quindi un ottimo investimento, in più queste moto, se curate e preparate da mani esperte, possono dimostrarsi valide anche ben oltre la gita al solito raduno, ma diventare compagne di spostamenti giornalieri e di vacanze, sicuri di potersi gustare quel sottile fascino e privilegio che sta nella guida di una moto d’epoca quando, però, sono ben messe a punto.
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