La Kawasaki Mach IV 750

Se la Kawasaki 500 Mach III aveva un motore rabbioso, la 750 Mach IV disponeva di un tre cilindri dalla potenza terrificante per gli Anni 70. Vibrava da matti, fumava come un turco, ma era pura emozione quando riuscivi a sfruttarlo in accelerazione. Buona maneggevolezza, ma stabilità da brivido dopo i 170 km/h

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Kawasaki Mach IV 750

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Certo è che se siete una motocicletta e vi danno della “bara volante” non c’è da stare allegri. Ebbene, questo era il simpatico nomignolo che accompagnava la Kawasaki Mach III 500, una splendida naked datata 1969 dove un mostruosamente efficace, potente e rabbioso motore tre cilindri 2T da 59 CV (a 8.000 giri/min) era mal contenuto in un telaio che non era proprio il massimo della rigidità. Impennate da brivido e curvoni ballerini erano il pane quotidiano con cui si accompagnava questa moto davvero unica nel panorama mondiale. In effetti, telaio a “budino”, freni a tamburo scarsamente efficienti e sospensioni eccessivamente soffici richiedono piloti di una certa esperienza. “Astenersi incapaci e principianti”, invoca sin dal primo approccio la Kawa, e fa subito capire le sue intenzioni, ma dalle nostre parti siamo tutti allenatori da serie A, pure piloti di Formula Uno e se ci piacciono le moto ci chiamiamo, ovviamente, Giacomo, nel senso del 15 volte campione del mondo. Così la Mach III trova grande successo anche da noi, visto pure il prezzo di acquisto comunque abbordabile: costa 880.000 lire mentre la Suzuki Titan 500 arriva a 830.000 lire, una Moto Guzzi V7 Special quota 820.000 lire e una BSA Rocket 3 750 ben 1.300.000 lire. La nuova Mach III si vende bene proprio per le sue caratteristiche beluine (in nove anni di produzione, dal 1969 al 1977, ne sono state costruite 117.509), ma incombe la rivoluzionaria Honda CB750 Four che, in effetti, ha tutte le carte in regola -e anche di più- per piacere: il suo rotondo motore quattro cilindri 4T eroga 67 CV, la costruzione generale è solidissima, le sospensioni adeguate alla velocità e monta un vero freno a disco che lavora a dovere. Quando la CB 750 entra in produzione nel 1969, Kawasaki ha, in effetti, in cantiere una 4T quattro cilindri di 750 cc, ma è in ritardo sullo sviluppo della sua “Bistecca di New York”, questo il nome in codice dei prototipi di quella che diventerà la Z1 900. Per contrastare la rivale giapponese bisogna crescere di cilindrata e prestazioni, ma questo richiede altro tempo da dedicare alla progettazione e alle prove.

La Mach III 500 non riesce più ad arginare l’avanzata mondiale della Honda e così, per non perdere colpi sul mercato delle sportive e per soddisfare gli americani che vogliono sempre più potenza perché amano le partenza sprint dai semafori a modello di dragster, il motore tre cilindri viene anabolizzato a 748 cc, la potenza sale a 74 CV (a 6.800 giri/min) e la soglia della velocità massima di 200 km/h è superata. Dopo la Mach III, la voglia di frantumare la barriera del suono diventa quadrupla (a livello del mare siamo a 4.900 km/h) e arriva la 750 Mach IV che porta al massimo, anzi esaspera, i concetti di potenza e brutalità della 500. Il motore ha sempre lo schema tre cilindri in linea con manovelle a 120° e la stessa disposizione degli organi come la frizione, il cambio a cinque marce e il trittico delle espansioni di scarico. La ciclistica si arricchisce del freno a disco usato sin da subito e c’è pure la possibilità di piazzarne un secondo visto che la forcella ne reca gli attacchi, ma il resto è praticamente una copia di quanto utilizzato per la 500, quindi la Mach IV è abbastanza maneggevole, facile da guidare quando si va piano, ma non è stabilissima sui curvoni perché la ripartizione dei pesi predilige sempre il posteriore, la forcella è rimasta troppo morbida e gli ammortizzatori fanno fatica a sostenere le sollecitazioni della strada. In tutto questo panorama non felice, proprio il terribile motore è quello che se la cava meglio. Prima di tutto è affidabile: i temuti grippaggi del cilindro centrale, quello meno esposto all’aria della corsa rispetto ai due laterali, non si manifestano. Il sistema di lubrificazione separata ha una portata adeguata e l’olio raggiunge sia su tre supporti di banco dell’albero motore sia i collettori di aspirazione, addirittura nelle ultime versioni (1974-1975) si miscela direttamente nelle vaschette dei carburatori Mikuni. L’accensione è finalmente elettronica ed è dotata di anticipo automatico, mentre le candele NGK hanno un elettrodo anulare, ovvero senza il consueto ponticello dove scocca la scintilla che innesta la combustione della miscela gassosa. Però, i carburatori sono sensibili alle vibrazioni, pulsazioni che sui primi modelli, quelli col motore montato al telaio senza silent-bloc, causano un aumento del livello del carburante nelle vaschette. La frizione si dimostra robusta mentre il cambio ha la tendenza a sfollare la terza marcia a causa di un rasamento che esce dalla sua sede. Quello che non muta, abbiamo detto è la propensione della ciclistica a “ballare” come non mai. A parte la sostituzione dell’alto e largo manubrio stile USA con un altro più basso e dritto, per incidere in misura minore sull’aerodinamica delle braccia, la Kawasaki consigliava di sfilare di 15 mm verso l’alto dalle piastre forcella gli steli della sospensione anteriore: non è una soluzione definitiva alle oscillazioni sui curvoni, ma si comincia a ragionare e non a pregare di stare in strada. Per il retrotreno occorre invece mettere da parte gli ammortizzatori originali e sostituirli con altri più adatti al peso della moto e alle sue performance.

Sul “come va” questa Kawa vi riportiamo le parole di Nico Cereghini, tester principe di Motociclismo negli anni settanta. Così commenta le prestazioni della Mach IV nella grandiosa prova comparativa del 1972 dove, sul circuito di Monza, vengono messe una contro l’altra sei maximoto: “La Kawasaki 750 ha l’accelerazione più terribile che si sia mai vista su una moto di serie. Per le partenze sulla base del quarto di miglio è necessario sedersi letteralmente sul serbatoio, e non basta perché ancora si impenna. Ma che lotta alle alte velocità. Oltre i 180 km/h la moto prende metà della pista e quando si arriva al tratto cronometrato non si sa mai se passare a destra o a sinistra delle fotocellule. I cronometristi si rifugiano dietro il guard-rail, terrorizzati, con gli occhi sbarrati e i capelli dritti”. Lo stesso concetto viene ripreso da un altro tester di quei giorni, Adalberto Falletta, che è stato il direttore responsabile della nostra rivista dal gennaio 2004 al maggio 2012: “Ci alternammo per una mattina intera, Nico ed io, alla guida della Kawasaki e di altre cinque maxi. Nessuna era più pericolosamente instabile quanto la Kawasaki. Tentammo di tutto: negli ultimi giri sbucavamo dalla Parabolica aggrappati allo stelo della forcella con la mano sinistra, mentre la destra stringeva la manopola del gas nella parte più interna in modo da non staccare il gomito dal serbatoio, nella speranza che la diminuita sezione frontale riducesse il serpeggiamento. Tutto inutile e anche pericoloso, a ripensarci oggi. Naturalmente non sta scritto da nessuna parte che una 750 stradale debba fare faville quando scende in pista. Ma dovrebbe essere scritto, anzi obbligatorio, che una moto fatta per raggiungere i 190 km/h, a 170 non diventi ingovernabile anche in rettilineo. Colpa del telaio? Delle sospensioni? Chissà”.

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